A quasi un anno dall’inizio della pandemia e dalle prime misure di contenimento, siamo di fronte ad un nuovo scenario.
La distribuzione del vaccino dovrebbe permettere un graduale e auspicato ritorno alla normalità, sia nella vita personale di ciascuno di noi, sia a livello economico-sociale.
Il vaccino al momento non è obbligatorio ed è distribuito dallo Stato secondo criteri che tengono conto della maggiore esposizione al rischio contagio (quindi per categorie di lavoratori) e dell’età (dando la precedenza alle persone più anziane, più colpite dalle prime ondate e più vulnerabili).
Il quesito che si sta ponendo e a cui cercherò di dare risposta, anche grazie agli autorevoli interventi che già si sono susseguiti nel tema, è: il datore di lavoro può obbligare il proprio dipendente a vaccinarsi? La risposta a questa domanda, che, chiariamo subito, è “no”, porta ad una serie di ulteriori domande che, come si avrà modo di vedere, non hanno una risposta univoca.
Il datore di lavoro può obbligare il proprio dipendente a vaccinarsi?
La risposta è ovviamente “no” per un semplice motivo: il vaccino è un trattamento sanitario e come tale, secondo quanto stabilito dall’art. 32 comma 2 della Costituzione, non può essere imposto se non per legge (e anche in questo caso non è esattamente un obbligo del tutto coercibile). Il datore di lavoro non ha alcuna facoltà per poter imporre tale trattamento al proprio dipendente, sia per il richiamo al dettato costituzionale, sia perché, in ogni caso, è lo Stato che si occupa della procedura di vaccinazione, che non è nella disponibilità del privato.
Gli altri interrogativi: conseguenze giuridiche del rifiuto del vaccino
Se questa prima risposta appare semplice (ma non lo è), molto più complicato risulta rispondere agli altri interrogativi: Cosa accade nel caso in cui un lavoratore rifiuti di sottoporsi alla vaccinazione Covid-19? È possibile che tale rifiuto (che allo stato è comportamento legittimo e non passibile di alcuna conseguenza giuridica) influisca sul rapporto di lavoro?
Sul punto, sono intervenuti autorevoli commentatori che hanno dato diverse e in certi casi opposte risposte.
In estrema sintesi, possiamo distinguere due filoni.
– Il primo, più intransigente e, mi sia permesso, provocatorio, è proposto dal prof. Pietro Ichino (nell’intervista ben nota del 29 dicembre 2020 al Corriere della Sera) e dal Magistrato Raffaele Guariniello, secondo cui è possibile licenziare il lavoratore renitente o comunque allontanarlo dal posto di lavoro.
Questa teoria fa leva sull’obbligo del datore di lavoro di preservare l’ambiente di lavoro, garantendo la sicurezza, anche sanitaria, di tutti i lavoratori (art. 2087 c.c.), mettendo a disposizione eventuali vaccini volti a garantire l’immunità presenti nelle lavorazioni (art. 279 T.U. 81/08) e seguendo le indicazioni del medico aziendale che ha la possibilità di dichiarare la inidoneità del lavoratore in caso di mansioni che possano comportare un rischio per la sua salute (art. 42 T.U. 81/08). Il rifiuto al vaccino potrebbe appunto comportare l’allontanamento del lavoratore dal luogo di lavoro o addirittura il licenziamento, nel caso in cui la presenza del lavoratore non vaccinato possa comportare un rischio per la salute di altre persone.;
– Il secondo filone, è meno tassativo e più possibilista.Lo ritroviamo, ex multis, nelle opinioni ben espresse dall’avv. Giampiero Falasca (su www.open.online.it) e dal prof. Franco Scarpelli, secondo cui il rifiuto del vaccino, allo stato, non può implicare alcuna conseguenza definitiva rispetto al rapporto di lavoro.
Allo stato attuale, credo che aderire a tale secondo filone, che all’interno ha molte e diverse sfumature, sia l’unico modo per affrontare in maniera prudente e attenta la questione.
Se è vero, come è vero, che il datore di lavoro ha l’obbligo di garantire la sicurezza, anche sanitaria, sul posto di lavoro, rimuovendo eventuali situazionidi pericolo (e rispondendo in caso di omissione di misure che possano preservare l’integrità del lavoratore) e se è vero che l’art. 20 del T.U. 81/08 impone al lavoratore un obbligo di cooperazione all’adempimento degli obblighi previsti a tutela della salute e sicurezza sui luoghi di lavoro, è vero anche che tali due obblighi non possono legittimare un terzo obbligo di vaccinarsi. Questo perché, allo stato attuale, non vi è alcuna conferma e certezza che il vaccino sia l’unica misura che possa impedire il contagio (e anzi, il vaccino che viene ora somministrato pare che non impedisca il contagio, ma limiti o azzeri i sintomi).
Tale incertezza (che si auspica venga presto superata) comporta di per se stessa l’impossibilità di poter imporre, per ordine datoriale, un trattamento sanitario.
Ciò posto, venendo alle conseguenze pratiche del rifiuto da parte del lavoratore, a parere di chi scrive, in linea con gli altri pareri già citati, va necessariamente operata una distinzione a seconda dell’ambiente di lavoro e del tipo di mansioni e quindi del rischio concreto di contagio. È evidente che, nel caso in cui il lavoratore operi in un ambiente ove il rischio di contagio è alto (ad esempio in ospedale, con mansioni sanitarie) oppure nel caso in cui sia a contatto con soggetti fragili (ad esempio nelle RSA), il rifiuto al vaccino potrebbe essere considerata condizione ostativa alla sua idoneità alle mansioni, per la maggiore esposizione al rischio di contagio.
E ciò a mente di quanto stabilito dall’art. 42 T.U. 81/08, secondo cui il medico aziendale deve verificare la condizione di salute psico-fisica del lavoratore, valutando l’idoneità alla mansione, anche in via temporanea.
Potrà dunque accadere che il medico aziendale, valutato il contesto lavorativo e le mansioni cui è addetto il lavoratore renitente, ne stabilisca l’inidoneità, temporanea (fino a che non sarà vaccinato): . In questo caso il datore di lavoro dovrà verificare la possibilità di adibire il lavoratore a mansioni, anche inferiori, che siano compatibili con il suo stato di salute (o con il suo stato di non vaccinato: quindi ipotizzando mansioni che non comportino il contatto con il pubblico o con le persone più fragili).
Solo in caso di assenza di mansioni alternative, il lavoratore potrà essere sospeso temporaneamente.
Si può licenziare un lavoratore non vaccinato?
Quanto alla possibilità di licenziare addirittura il lavoratore non vaccinato, si tratta di un’ipotesi davvero azzardata, che esporrebbe l’azienda ad una sicura impugnativa, con alto rischio di illegittimità del licenziamento, per vari motivi sia estemporanei che di carattere generale: In primis perché il licenziamento per inidoneità alla mansione rientra tra quelli per giustificato motivo oggettivo che, al momento, sono ancora bloccati fino al 31 marzo 2021. Poi, anche perché l’inidoneità potrebbe essere contestabile sotto molteplici profili (ad esempio, perché solo temporanea).
Tali considerazioni, che devono essere ritenute mere ipotesi in attesa di maggiori chiarimenti anche in ordine alla reale efficacia del vaccino in termini di contenimento del contagio e di protezione universale, valgono chiaramente solo per talune categorie di lavoratori e di ambienti di lavoro, non potendo essere applicate indiscriminatamente a tutto il mondo del lavoro.
In nessun caso, comunque, pare possa sostenersi che l’obbligo gravante sul datore di lavoro, di garantire la sicurezza del lavoratore, possa estendersi a tale punto da pretendere che lo stesso datore di lavoro si assuma anche la responsabilità di convincere i singoli ad adempiere quello che allo stato è un dovere (nobile e condivisibile) ma solo etico e non giuridico. Il compito di convincere e, in extremis, costringere i cittadini a vaccinarsi spetta allo Stato e non certo alle imprese. Quest’ultime, al più, potranno tutelare l’ambiente di lavoro ed eventualmente i terzi fruitori dei servizi (si pensi appunto alla RSA gestite dalle cooperative) allontanando momentaneamente i lavoratori non vaccinati se ritenuti una minaccia alla salute collettiva e all’ambiente di lavoro. Ma, anche in questo caso, rischiano che tale iniziativa possa essere ritenuta illegittima dal lavoratore e quindi impugnata.
Il consiglio è quindi di adoperare la massima prudenza e di confrontarsi con professionisti esperti prima di prendere qualsiasi decisione, in attesa di un intervento statale, magari d’intesa con le Parti Sociali. E in attesa anche di tempi migliori per tutti.
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