Una volta terminato il rapporto di lavoro, generalmente il lavoratore è libero di prestare la propria attività presso qualsiasi altro datore di lavoro, sfruttando al meglio e appieno la professionalità acquisita, con il solo limite di non divulgare le informazioni riservate acquisite in corso di rapporto presso il precedente datore di lavoro.
Può però esserci l’interesse del datore di lavoro a limitare in qualche modo l’attività del proprio dipendente, soprattutto se esperto e formato, per impedire che questi, dopo la cessazione del rapporto, possa prestare la sua attività presso attività concorrenti.
In questi casi, può essere opportuna la stipulazione di un patto di non concorrenza.
Il patto di non concorrenza tra lavoratore e datore di lavoro costituisce una pattuizione accessoria al rapporto di lavoro con la quale si limita lo svolgimento dell’attività del prestatore di lavoro per il tempo successivo alla cessazione del contratto.
Quando può essere stipulato?
Solitamente il patto di non concorrenza viene stipulato contestualmente all’assunzione del lavoratore, ma nulla vieta che esso venga stipulato in corso di rapporto (quando ad esempio il lavoratore abbia conseguito una maggiore esperienza e professionalità) o ancora anche dopo la cessazione del rapporto di lavoro stesso. In quest’ultimo caso, può concretizzarsi l’ipotesi di un patto di opzione in favore del datore di lavoro, in forza del quale questi, a fronte delle dimissioni del lavoratore, ha la facoltà di esercitare entro un termine prestabilito l’opzione di stipulare un patto di non concorrenza che vincola il dipendente dimissionario.
Che contenuto deve avere il patto di non concorrenza?
A pena di nullità (art. 2125), il patto di non concorrenza deve:
- essere stipulato in forma scritta: può essere contenuto nello stesso contratto di assunzione o previsto in un patto a latere;
- stabilire un vincolo contenuto in determinati limiti di oggetto, tempo e luogo;
- prevedere un corrispettivo a favore del lavoratore.
Quanto al punto 2), i limiti di oggetto riguardano l’attività lavorativa che viene inibita al lavoratore. Può trattarsi di qualsiasi attività lavorativa, anche non necessariamente rientrante nelle mansioni svolte dal lavoratore in corso di rapporto, potendo essere esteso ad ogni attività economica che si ponga in concorrenza con quella esercitata dal datore di lavoro (come specificato recentemente dalla Cassazione con l’ordinanza 9790 del 26 maggio 2020 “Le attività economiche da considerare in concorrenza tra loro ex art. 2125 c.c. vanno identificate in relazione a ciascun mercato ove convergono domande e offerte di beni o servizi identici o reciprocamente alternativi e/o fungibili, parimenti idonei a soddisfarne i bisogni”). La limitazione, tuttavia, non può essere tale da impedire completamente al lavoratore di svolgere qualunque tipo di attività, compromettendo del tutto ogni potenzialità residuale.
La limitazione in termini di luogo è valutata in maniera discrezionale e variabile caso per caso, in quanto strettamente connessa all’oggetto: può essere valida una limitazione ampia a tutto il territorio italiano, ad esempio, se comunque il lavoratore può ugualmente esplicare la propria attività.
Quanto alla durata (limiti di tempo), la normativa stabilisce un termine massimo di 3 anni, elevato a 5 anni nel caso di dirigenti. In tal caso, la valutazione della validità del patto è strettamente connessa alla durata del contratto di lavoro: quanto più dura il contratto di lavoro, tanto più sarà valida la limitazione imposta dal datore di lavoro post contratto. Se un contratto di lavoro è durato solo 1 anno, perché cessato per volontà del datore di lavoro, l’eventuale patto di non concorrenza per i 3 anni successivi alla cessazione del rapporto potrebbe essere ritenuto non valido.
In questo senso, è opportuno prevedere nel patto di non concorrenza una gradualità del vincolo direttamente collegato alla durata del rapporto di lavoro o alle motivazioni per cui il rapporto viene a cessare. Un conto, infatti, è la cessazione del rapporto per dimissioni del lavoratore (che ben potrebbe far sorgere il timore per il datore di lavoro di vedere svolgere attività concorrenziale da parte dell’ex dipendente dimissionario). Un altro conto è la limitazione imposta a un dipendente che venga licenziato e che si trovi quindi senza lavoro per scelta del datore di lavoro stesso, con l’ulteriore limitazione di non poter svolgere attività concorrenziale.
Il patto di non concorrenza, inoltre, deve prevedere un corrispettivo a favore del dipendente. La giurisprudenza ha elaborato una serie di requisiti che deve rispettare il corrispettivo.
Può essere erogato in corso di rapporto oppure alla sua cessazione, una tantum.
Nel primo caso, la somma può essere stabilita in forma fissa o percentuale: in ogni caso, è necessario che sia previsto un minimo garantito e che l’importo corrisposto sia determinato o per lo meno determinabile, non potendo dipendere la determinazione del corrispettivo dalla sola durata del rapporto (elemento sottratto alla disponibilità del lavoratore). Questo, perché, nel caso corrispettivo periodico non predeterminato, “il lavoratore non ha la possibilità di prevedere l’utilità che potrà conseguitare dal detto patto, a fronte di un sacrificio sicuro, mentre residua in capo al datore di lavoro il potere di recedere dal rapporto di lavoro sia pure con le previste sanzioni per le illegittimità del licenziamento, anche immediatamente dopo la conclusione del patto, ottenendone, a fronte di un pagamento minimo, l’obbligo negativo del lavoratore di non svolgere le attività indicate nell’accordo” (in questo senso, si è espresso di recente il Tribunale di Treviso, sezione Lavoro, con la sentenza del 20 febbraio 2020).
Quanto alla congruità della somma riconosciuta, “il patto non deve prevedere compensi simbolici o manifestamente iniqui o sproporzionati in rapporto al sacrificio richiesto al lavoratore e alla riduzione delle sue capacità di guadagno” (sempre Cassazione ordinanza 9790/20 già citata). La prassi stabilisce che il corrispettivo deve essere pari ad almeno il 30 % della retribuzione annua e il suo ammontare deve essere tale da compensare, per lo meno in parte, il sacrificio economico richiesto al lavoratore per limitare la sua attività dopo la cessazione del contratto.
È quindi opportuno prevedere, nel caso di previsione di versamento periodico mensile del corrispettivo per il patto di non concorrenza, un importo minimo garantito a prescindere dalla durata iniziale del contratto, nonché di stabilire anche l’importo massimo che verrà erogato, in modo che sia chiaro fin dal principio al lavoratore quale sarà la somma che gli verrà riconosciuta a tale titolo.
Cosa accade nel caso in cui il patto di non concorrenza venga dichiarato nullo?
Nel caso in cui venga dichiarato nullo, il lavoratore non sarà vincolato al suo rispetto, con l’obbligo conseguente di dover restituire le somme ricevute in corso di rapporto a tale titolo, trattandosi di somme versate indebitamente. Naturalmente, nel caso in cui il lavoratore dimostri di aver rifiutato proposte di lavoro, sentendosi vincolato al rispetto del patto di non concorrenza, poi dichiarato nullo, potrà essere valutata la non ripetibilità di tali somme da parte del datore di lavoro, pur in presenza di una pronuncia di nullità, stante il legittimo affidamento del lavoratore.
Può essere risolto il patto di non concorrenza?
Il patto di non concorrenza è un contratto, a tutti gli effetti: quindi può essere risolto solo previo accordo delle parti. È nullo il patto ulteriore che affida la possibilità per il datore di lavoro di risolvere il patto di non concorrenza alla cessazione del rapporto di lavoro: tale facoltà vanificherebbe la previsione di un limite di durata del patto, previsto a pena di nullità.
Rinviamo all’approfondimento del partner avv Alfredo Pivato sul fenomeno dello storno dei dipendenti, quale atto di concorrenza sleale, che potrebbe presentare ulteriori criticità nel caso in cui uno o più dipendenti fossero soggetti al vincolo del patto di non concorrenza.
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