L’assenteismo sul lavoro costituisce una vera e propria piaga che grava su molte aziende ma che risulta difficile da accertare e dimostrare; spesso, infatti, il datore di lavoro che ha dei sospetti non è in grado, né materialmente né giuridicamente, di provarli autonomamente.
Non potendo quindi procedere alle azioni previste a sua tutela, che possono arrivare fino al licenziamento per giusta causa quando la condotta del dipendente rappresenti una lesione del fondamentale vincolo fiduciario con l’azienda.
Poiché le c.d. “visite fiscali” non possono da sole garantire un pieno controllo delle assenze per malattia o infortunio, sempre più aziende private o a partecipazione pubblica, si rivolgono ad agenzie investigative, affidandogli il compito di sorvegliare i dipendenti per accertare la reale esistenza di una condizione inabilitante che ne giustifichi l’assenza e la corretta fruizione del periodo di malattia.
Gli investigatori, pertanto, verificano se il soggetto assuma condotte incompatibili con la malattia dichiarata, con particolare attenzione ai permessi richiesti ripetutamente e/o a ridosso di ponti o festività, documentando i comportamenti non consoni, mediante l’acquisizione di elementi probanti utilizzabili in sede giudiziaria e/o extragiudiziaria.
Affinché l’attività dell’agenzia investigativa – titolare di regolare licenza prefettizia – possa essere considerata lecita ed i suoi esiti utilizzabili, la stessa deve essere conferita mediante rilascio di apposito mandato – ex art. 134 TULPS, sottoscritto dal datore di lavoro, al fine di far valere o difendere un legittimo diritto.
La giurisprudenza sul tema
La Corte di Cassazione si è ripetutamente pronunciata sul punto, e le sentenze più recenti (in particolare v. Cass. n. 8373 del 04.04.2018) hanno stabilito che la disposizione dell’art. 2 dello Statuto dei lavoratori, nel limitare la sfera di intervento di persone preposte dal datore di lavoro a tutela del patrimonio aziendale, non preclude a quest’ultimo di ricorrere ad agenzie investigative, purché queste:
– non sconfinino nella vigilanza dell’attività lavorativa vera e propria, riservata dall’art. 3 dello Statuto direttamente al datore di lavoro e ai suoi collaboratori;
– giustifichino l’intervento in questione non solo per l’avvenuta prospettazione di illeciti e per l’esigenza di verificarne il contenuto, ma anche in ragione del solo sospetto o della mera ipotesi che detti illeciti siano in corso di esecuzione (cfr. Corte di Cassazione, 14.02.2011 n. 3590);
– si limitino agli atti illeciti del lavoratore non riconducibili al mero adempimento dell’obbligazione, ossia che esulino dall’esecuzione dell’attività lavorativa in senso stretto (Corte di Cassazione, 07.06.2003 n. 9167). Le garanzie degli artt. 2 e 3 citati, infatti, non si estendono agli eventuali comportamenti illeciti commessi dal lavoratore in occasione dello svolgimento della prestazione che possono essere liberamente accertati dal personale di vigilanza o da terzi, come appunto l’accertamento delle cause del mancato svolgimento dell’attività lavorativa da compiersi anche all’esterno della struttura aziendale.
La Suprema Corte ritiene altresì che l’attività delle agenzie investigative non violi neppure gli artt. 2104 e 2106 c.c. perché il potere dell’imprenditore di controllare direttamente o indirettamente l’adempimento delle prestazioni lavorative, nei limiti sopra evidenziati, può legittimamente avvenire anche occultamente, senza che vi ostino né il principio di correttezza e buona fede nell’esecuzione dei rapporti, né il divieto di cui all’art. 4 della Legge n. 300/1970 riferito esclusivamente all’uso di apparecchiature per il controllo a distanza (cfr. Corte di Cassazione, 10.07.2009 n. 16196).