Smart working e COVID-19: proviamo a capirci qualcosa

Covid-19: tra il datore di lavoro e il lavoratore, chi decide lo smart working? Cosa sono le comprovate esigenze lavorative? Come si deve comportare l’azienda? E il lavoratore?

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Siamo in un momento di estrema difficoltà nel Paese: all’emergenza sanitaria si aggiunge la necessità di continuare quanto più possibile a lavorare, in attesa di maggiori chiarimenti da parte del Governo sulle misure economiche che verranno adottate e sulle effettive restrizioni agli spostamenti. Per ora, la linea del Governo è quella di concedere gli spostamenti per limitate ragioni, tra cui la prima è di “comprovate esigenze lavorative”.

Nella prima bozza che era trapelata sabato 7 marzo, scatenando il ben noto caos, le esigenze lavorative erano indicate come “indifferibili”. Nel testo finale licenziato il giorno dopo, il D.P.C.M. dell’8 marzo 2020, seguito da quello del 9 marzo 2020 esteso a tutto il territorio italiano, le esigenze lavorative sono divenute “comprovate”.

Quindi, per ora, ci si può spostare dal proprio domicilio, anche in altro Comune, Provincia o Regione, per “comprovate esigenze lavorative”.

Cosa sono le comprovate esigenze lavorative?

Il dubbio di questi giorni è: cosa sono le comprovate esigenze lavorative? Come si deve comportare l’azienda se decide di non chiudere l’attività? Ed il lavoratore?

Proviamo a rispondere a queste domande, facendo presente che, al momento, stiamo discutendo di provvedimenti che sono soggetti a costanti modifiche e le interpretazioni non sono autentiche, essendo il Governo impegnato a fronteggiare l’emergenza.

Vediamo cosa dice la norma di legge:

al punto r) dell’art. 2, il decreto stabilisce che “la modalità di lavoro agile disciplinata dagli articoli da 18 a 23 della legge 22 maggio 2017, n. 81, può essere applicata, per la durata dello stato di emergenza di cui alla deliberazione del Consiglio dei ministri 31 gennaio 2020 – quindi per ora fino al 3 aprile 2020 – dai datori di lavoro a ogni rapporto di lavoro subordinato, nel rispetto dei principi dettati dalle menzionate disposizioni, anche in assenza degli accordi individuali ivi previsti; gli obblighi di informativa di cui all’art. 22 della legge 22 maggio 2017, n. 81, sono assolti in via telematica anche ricorrendo alla documentazione resa disponibile sul sito dell’Istituto nazionale assicurazione infortuni sul lavoro”.

Chi decide se adottare o no la formula dello smart working?

Il ricorso al lavoro agile (smart working) è un’opzione del datore di lavoro, che può scegliere se adottarla o meno. Nel caso in cui la applichi, potrà farlo anche in assenza degli accordi individuali con il lavoratore, previsti solitamente dalla normativa e assolvendo agli obblighi in materia di tutela del lavoratore in maniera più snella. Quindi in questo caso decide l’azienda.

Il lavoratore può accettare o meno di farlo: se però il lavoratore dovesse rifiutarsi, il datore di lavoro potrebbe non accettare la prestazione lavorativa (vediamo poi al punto successivo).

Se il lavoratore chiede di poter lavorare da casa, tramite lo smart working, il datore di lavoro può concederlo o meno: ciò sulla base di proprie valutazioni inerenti le modalità di lavoro, le esigenze produttive, le condizioni del lavoratore etc.

È chiaro che se un lavoratore chiede di poter lavorare da casa e le modalità di lavoro glielo permettono (ad esempio svolge un lavoro di ufficio con collegamento da remoto), il datore di lavoro dovrebbe tendenzialmente concedere tale opzione al lavoratore.

Se invece il datore di lavoro rifiutasse la disponibilità del lavoratore di operare da casa, dovrebbe poi essere in grado di giustificare la scelta di preferire la presenza fisica del lavoratore, tenendo ben presente che, nel malaugurato caso in cui il lavoratore poi dovesse venire contagiato, il datore di lavoro potrebbe tendenzialmente essere chiamato a rispondere di eventuali danni al lavoratore (sempre in via ipotetica, tenendo conto che il nesso di causa in casi come questi è difficilmente dimostrabile).

Perché per il datore di lavoro sussiste questa responsabilità ?

Dobbiamo sempre tenere a mente che il datore di lavoro deve garantire al lavoratore di poter operare in un ambiente di lavoro sicuro e deve preservare la sua incolumità. In casi come questo che stiamo vivendo oggi, anche il solo allontanarsi da casa potrebbe diventare fattore di rischio.

Per questa ragione, nella valutazione che deve fare il datore di lavoro, va tenuto conto delle effettive e comprovate esigenze lavorative, che evidentemente non possono essere in generale tutte le esigenze produttive, ma devono essere mirate alla prosecuzione dell’attività (istanza sacrosanta) ma contemperate con la tutela della salute.

Se il datore di lavoro decide di non concedere lo smart working ma non prosegue l’attività per non mettere a rischio la salute dei dipendenti?

Ecco il punto s) dell’art. 2 del decreto citato: qualora sia possibile, si raccomanda ai datori di lavoro di favorire la fruizione di periodi di congedo ordinario o di ferie.

Se il lavoratore non vuole prendersi ferie (o non ne ha), potrà rimanere a casa, in linea di massima senza diritto alla retribuzione, in permesso non retribuito, dato che l’azienda non può accettare la prestazione lavorativa che comunque il lavoratore non potrebbe garantire.

Su questo punto, attendiamo comunque il testo del decreto che il Governo sta predisponendo per la manovra economica straordinaria di supporto al Paese.

Avvocato Erica Mussato, Diritto del Lavoro e Previdenziale, Treviso - Partner Agoràpro
Avvocato Erica Mussato, Diritto del Lavoro e Previdenziale
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Problematiche sul lavoro – Imprese e Società

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